lunedì 26 aprile 2010

Il Gelso

Nel mio giardino c’è un vecchio gelso.

Dicono abbia centocinquanta anni, e io mi fido. ... Mostra tutto

Ceppo non endemico, messo a dimora da qualche lontano abitatore di questa colonica, che di anni ne ha cento di più, perché gemmasse seta da filare. Ha udito a fondovalle echi e spari di un’unità d’Italia troppo annunciata per fare fiasco. Quasi un secolo dopo ha fatto da spalliera a qualche partigiano, che in questa casa si rifugiò, ne fece un forno e una mensa per compagni clandestini come lui e qualche anno fa, passeggiando da queste parti con cinquant’anni di più sulla spina dorsale — ma con gli occhi di allora — cercò la casa e stentò a riconoscerla in ciò che è diventata. Il gelso, quello il vecchio partigiano lo riconobbe al primo colpo e non lo trovò affatto cambiato.

Non dà più more, chi può ormai dire da quanto tempo. Inclinato di quaranta gradi, senza sgarrare una primavera vegeta in un discrimine stretto tra la rovina e l’eternità. Non ha frutti ma radici sì, grandi, a fil di prato come scavi di talpa. Ed è cavo. Mia figlia, a quattro anni, ci si avventurava fingendosi Alice delle Meraviglie che precipita nel Paese omonimo.

Il gelso mi sta chiedendo, a modo suo, di non essere né vago né reticente. Ci tiene a chiarire che il suo piegarsi non è da decenni un venir giù, una resa. È uno stato d’animo. Una rappresentazione. Precoce per via di una terra argillosa e cedevole, ad assecondare una tramontana che qui sullo spiazzo arriva da secoli diritta come una schioppettata. Proseguita a sfida della gravità e della morte, per riconoscenza verso la zolla che lo nutre e per non abbandonarla ad altri metri di porcile ieri, o a una frivola aiuola di fiori esotici oggi, qui, in piena etruria. Ora è una pendenza, accentuata dicevo, che più niente ha a che fare con la gravità.

La corteccia mi guarda con solchi di sughero, e sinceramente non so se in questa petizione di pubblicità mi riconosca o mi confonda — quanti ne avrà visti come me, aggirarsi con panni diversi su questa vecchia aia e tutti con un pago, effimero senso di proprietà. Quanti uomini e quante donne gli avranno solleticato il tronco e, approfittando del suo sostegno anatomico, senza saperlo gli avranno lasciato in un’impronta calda di vita l’invito a non cedere a gennaio, ad aspettare un altro aprile.

Ma al tramonto, finito l’autunno, qui si va a teatro... il gelso spoglio, di profilo, sembra proprio stiracchiarsi mentre si intaglia nella ruggine diffusa del sole che scollina il pratomagno, e il suo pendere si tende come una mano alla vallata che, simile a una matrona sdraiata su un’ottomana, lo guarda indolente con i suoi cento sospiri di lucignolo. È il suo pubblico di habitués, la sua platea stanziale.

Ci sarà dunque un nuovo inverno per lui, e altra neve, passeggera appena più di me, verrà a scontornarne dolcemente i rami, rugosi come vecchi guitti che non cessano di calcare la scena, perché lo spettacolo — il suo — va avanti.